In Sicilia con Gesualdo Bufalino


«Allora Nadia, lasciaci con un suggerimento di lettura».
«Avete letto altri romanzi di scrittori siciliani?»
«Solo Todo modo di Sciascia».
«Nulla di Gesualdo Bufalino
E così, nell’incontro di gennaio, Nadia Terranova scelse quello che sarebbe diventato il libro del mese di marzo degli equiLibristi. Lei aveva menzionato Argo il cieco ma, visto l’elevato numero di copie disponibili di Diceria dell’untore, abbiamo optato per l’esordio tardivo.
«Tardivo il mio esordio? Precoce, piuttosto. Sarebbe bastata un po’ di pazienza e avrei esordito beatamente da postumo».
In un periodo in cui si sgomita per definirsi scrittori dopo aver pubblicato mezzo romanzetto (acquistato a malapena da babbo, mamma e dalla zia anziana, troppo affezionata al nipote prediletto per deluderlo), sussultiamo di fronte alla risposta ironica che il sessantunenne Gesualdo Bufalino riservò a un giornalista all’indomani della vittoria del Campiello. Era il 1981 e Bufalino veniva strappato dalla tana di Comiso, da cui scriveva segretamente e ininterrottamente dal secondo dopoguerra, per passare alla Galassia Gutenberg. 


Quando si apre per la prima volta un’opera di Bufalino, la vertigine è tale da avere la tentazione di chiudere il libro e sedersi per riprender fiato. Si viene storditi dalle parole, a volte incomprensibili ma sempre musicali, poetiche, roba da tornare indietro e ricominciare a leggere tutto daccapo ad alta voce.
Era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere o disvolere morire, in quell’estate del quarantasei, nella camera sette bis, dove ero giunto da molto lontano, con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo, dopo essermi trascinata dietro, di stazione in stazione, con le dita aggranchite sul ferro della maniglia, una cassetta militare, minuscola bara d’abete per i miei vent’anni dai garretti recisi. Non avevo altro bagaglio, né vi era dentro gran che: un pugno di ricordi secchi, e una rivoltella scarica fra due libri, e le lettere di una donna che ormai divorava la calce, fra Bismantova e il Cusna, sotto un cespuglio di fiori che avevo sentito chiamare aquilegie.
È tutta qui la storia di Diceria dell’untore: un giovane siciliano, reduce della Seconda guerra mondiale che, malato di tubercolosi, si rifugia in un sanatorio della Conca d’Oro per lottare contro la morte.
È un romanzo che trae in inganno: piccino, pensi che lo leggerai in un paio d’ore tra un autobus e l'altro o mentre il piccolo dorme. Invece non ce la fai. Non riesci ad entrare nella storia, i rumori ti deconcentrano, non capisci chi diavolo sia il Gran Magro, non comprendi dove sia il limite tra la diceria e la realtà. Può accadere che perdi la pazienza, come Fabiana, perché Federico vuole andare al parco, lei ha una pila di compiti da correggere per il giorno dopo e, siate buoni, l’ultima cosa di cui sente la necessità è infilarsi in un sanatorio con un gruppo di tisici che stanno lì lì per spirare.  
Il trionfo della morte, Pieter Bruegel il Vecchio

Ma può anche accadere che finalmente hai sbrigato tutto le faccende accumulate nell’ultimo mese e pensi che, diamine!, questo pomeriggio mi piazzo sul divano e mi teletrasporto a Palermo, nell’estate del ’46. E per Candida è stata una rivelazione; non pensava potesse appassionarsi così a questa storia (onestamente, neppure noi lo pensavamo); invece, prova curiosità per Marta, sbircia nel suo guardaroba, la osserva mentre prende a braccetto il nostro eroe e girovaga tra il Teatro Massimo e il Politeama. Però non comprende quella decisione finale di buttare nella stufa il quadernetto contenente carte intestate a Levi Marta di Levi Tullio e di Della Pergola Miriam. Perché bruciarle? Magari Marta aveva ancora qualche parente a cui avrebbe fatto piacere riceverle…
Può anche accadere che, va bene la padronanza della lingua, va bene l’eleganza della scrittura, ma a me quest’opera non ha trasmesso nessuna emozione. Semmai non avessimo compreso il concetto, Rita fa un paragone efficace: siamo state (con Candida, la compagnetta di merende) nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Una delle cappelle è stata affrescata dal Domenichino. Pennellate eleganti, precise, pulite. Oggettivamente bello. Poi entri in un’altra cappella e ti trovi davanti al Caravaggio. Guardi la tela e avverti una cosa dentro lo stomaco. Un pathos, una passione! Ecco: Diceria dell’untore è un Domenichino. Io volevo un Caravaggio.
Chiaro, no?
Cosa volesse Luigi non è altrettanto chiaro. Ma il romanzo non l’ha entusiasmato. Ha impiegato almeno un centinaio di pagine per entrare nella storia e poi, sì, belle alcune descrizioni… epperò, pesantuccio, via, inutile girarci troppo intorno.
Amante dell’inafferrabile, Gianluca parla accarezzando il libro. Basta aprire una pagina a caso per restare a bocca aperta. Bufalino era un genio. Più poetico nella prosa di quanto non lo sia stato nei versi. Un libro che puoi leggere in treno ma poi torni a casa e devi rileggere qualche passo per il timore d’aver perso una delle tante frasi incredibili di cui è disseminato il romanzo. Frasi che Teresa Anna vorrebbe leggere a voce alta con noi, ma rischieremmo di assistere all’intera lettura del romanzo e il bibliotecario ha un figlio piccolo ad attenderlo; e poi ha già rischiato d’appisolarsi un paio di volte, nel vano tentativo di leggere Diceria dell’untore in treno. Dormire nella sala comunale di Ciampino non sarebbe elegante.
Nessun colpo di sonno per Roberta che, avendo poco tempo a disposizione, s’è fatta raccontare Diceria dell’untore e Argo il cieco mentre guidava. Grande invenzione l’audiolibro, anche se, in questo caso, come la stessa Roberta ammette, i romanzi perdono parte del loro fascino. Forse proprio perché conosce già lo stile barocco di Gesualdo Bufalino, Roberta avverte i limiti della narrazione orale. Talvolta il lettore esigente vuole sentire la sua voce e non l’interpretazione altrui.
Con l’immagina di Modica, un paese in figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma un po’ campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi… Un teatro era il paese, un proscenio di pietra rosa, una festa di mirabilia. E come odorava di gelsomino sul far della sera, la new entry Emanuela ci conduce nella sua Sicilia. Le parole sono di Bufalino, ma i ricordi di Argo il cieco si mescolano con le memorie d’infanzia di Emanuela, che ci conduce tra le viuzze di Ragusa Iblea e Modica. Viene da pensare che anche lei sia una collezionista di ricordi, come amava definirsi lo stesso Bufalino, un tipo riservato, colto, appassionato di cinema, musica, parole.
Se il portale di Rai letteratura non fa le bizze, qui si può vedere un bel ritratto dello scrittore siciliano e decidere di leggere un’altra sua opera. O metterlo da parte e andare alla ricerca di un Caravaggio.

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