Di quel giorno in cui il gruppo di lettura diventò enorme e dell’entusiasmo per La moglie (o la spianata)

Il coccolone ti viene nel momento in cui arrivi in biblioteca e vedi la sala piena e le persone che si guardano intorno in cerca di altre sedie. La seconda ondata di panico ti coglie quando Gianna, un po’ in disparte, osserva a tutta voce: “E no, è! Ma così non si può. Siamo troppi, non riusciremo a parlare tutti. Non va bene. Mica possiamo restare qui fino a mezzanotte a parlare del libro?!”. Sembra così irritata che pensi “Oddio, mò s’alza e se ne va”. Tra l’altro, sai che manca qualche partecipante (Candida, Marcella, Dino, Amanda, Carla, Lucia), e ti lasci prendere da altri due minuti di terrore. 
Il gruppo è cresciuto tantissimo. Sei combattuta tra il desiderio di cominciare a saltellare nella sala (Evvai! Non è vero che ci siamo rimbecilliti tutti davanti alla TV! Non è vero che la biblioteca è un’istituzione del passato! Non è vero che nelle aree periferiche non valga la pena di investire nella cultura! A modo nostro, siamo un gruppo di resistenti rivoluzionari) e l’ansia di dover ammettere che sì, effettivamente siamo diventati tanti. Quelli bravi sostengono che un gruppo di lettura debba essere costituito da massimo 20 partecipanti, numero che permette di sperimentare anche formule diverse di interazione tra i lettori, trasformando un partecipante in un coordinatore.
Niente panico. Respirare profondamente. Ricordarsi che non bisogna mai perdere l’equilibrio. Mettere da parte forme sperimentali: restituire alla povera Marina il ruolo di partecipante e non di coordinatrice e godersi il confronto senza badare a quanti siamo diventati.

Prestito scaduto: la gatta di Lina non molla la presa.
Raro caso in cui il libro è piaciuto a tutti, ma proprio a tutti. 
Si è passati dalla rabbia alla commozione, dall’incredulità alla paura, dalle lacrime al desiderio di prendere a schiaffi Gauri, la moglie. Nessuno che sia rimasto indifferente alle vicissitudini narrate e allo stile della Lahiri. Il titolo italiano, però, ha generato qualche perplessità. Perché trasformare l’originale the Lowland in La moglie? Per alcuni, la spianata (come è stata tradotta all’interno del testo l’espressione “the lowland”) avrebbe racchiuso perfettamente il senso della storia. La spianata è il luogo dal quale tutto inizia e tutto termina; è lì che, alla fine del monsone, il livello dei due stagni, uno accanto all’altro (due specchi d’acqua, come due fratelli, Subhash e Udayan) sale fino a trasformarsi in un solo lago, sommergendola completamente. È la spianata il luogo attraversato tante volte dai due ragazzi, il luogo popolato dagli aironi, quello in cui “certe creature deponevano uova in grado di resistere alla stagione secca. Altre sopravvivevano seppellendosi nel fango, fingendosi morte, aspettando il ritorno della pioggia. Ma non tutte le creature riescono a sopravvivere dopo essersi finte morte.
Jhumpa Lahiri scrive un romanzo ricco di simboli, nessuna immagine è casuale; l’idea della spianata che si trasforma in fango e palude fa pensare all’immobilità di alcuni personaggi, alla difficoltà di uscire dalle situazioni in cui si è rimasti impantanati, alla solitudine che attanaglia i diversi soggetti. In quest’ottica, la scelta italiana del titolo è sembrata inopportuna a molti. In fondo, però, come sostiene Rita, gran parte del romanzo ruota intorno alla figura di Gauri, due volte moglie ma che moglie, forse, non lo è mai stata. O invece sì: è stata solo la giovane moglie di Udayan, il sole che sorge, e lo è rimasta anche dopo la sua scomparsa. Ma Subhash preferisce non ascoltare le parole di Bijoli, sua madre:
È la moglie di Udayan, non ti amerà mai, gli aveva detto la madre tentando di dissuaderlo.
Sebbene gran parte dell’incontro sia stato tutto un dibattito tra chi accusa Gauri e chi si affanna nella ricerca di un alibi che giustifichi i suoi comportamenti, chi ne evidenzia l’indifferenza e la freddezza e chi si è lasciato intenerire dal forte senso di colpa per esser stata complice involontaria di un omicidio, il romanzo si sarebbe potuto intitolare anche I due fratelli, o Udayan o Le irreparabili conseguenze delle azioni di Udayan. Non che quest’ultimo sia un titolo accattivante ma, per essere un protagonista-assente, le scelte di vita di Udayan hanno influenzato pesantemente le sorti degli altri personaggi del romanzo.
Udayan, il fratello impulsivo e rivoluzionario, è così concentrato sulle misere condizioni dei contadini e degli operai, così convinto nel perseguire gli ideali naxaliti professati dal leader Sanyal, da non valutare quanto le sue azioni condizioneranno il futuro di chi lo ama.
Udayan aveva dedicato la vita a un movimento inefficace, che aveva causato solo danni, che era già stato annientato. Era riuscito a cambiare un'unica cosa: la loro famiglia.
E sarà Subhash, il fratello razionale, a prendere in mano la situazione. Il fratello generoso, come è stato detto dai più, o quello passivo, come è sembrato a Fabiana, o quello opportunista, come ha notato il bibliotecario che «Ma dai, ma quale spirito di sacrificio! S’era innamorato di Gauri la prima volta che l’ha vista in quella piccola foto in bianco e nero che gli ha mandato Udayan (affascinante senza essere bella). Se l’è portata in America dopo la morte del fratello perché gli è piaciuta da subito, altro che sacrificio!».
Prendendo ispirazione dalle manie di Lina, che ha associato un aggettivo a ciascuno dei personaggi del libro, ho iniziato ad annotare le parole più ricorrenti pronunciate dal gruppo durante l’incontro. È venuta fuori una cosa di questo tipo:
Parlando di Subahsh: altruismo, generosità (Lina), conservatore, paternità senza essere padre, alienazione, fraterno, sacrificio, cultura, morte, amore, conseguenze, perdita.
Parlando di Gauri: frustrazione e crescita (Renata), nessuna crescita, senza radici, “lei non era” (Luigi: non era madre, non era moglie), senso di colpa (Gianna); genitorialità, egoismo, indifferenza, freddezza, rabbia, amore, errore, peso, conseguenze, perdita, ricerca di un’identità.
Parlando di Udayan: rivoluzionario, fraterno, ideali, morte, amore, errore, peso, storia, sconfitta (“Lui non era mai stato in un paese diverso dal suo. In Cina, o a Cuba. Gli tornò in mente una frase letta di recente, le ultime parole scritte dal Che ai figli: Ricordatevi che l’importante è la rivoluzione e che ciascuno di noi, da solo, non vale nulla.
Nel suo caso, però, non aveva portato a niente, non aveva aiutato nessuno. Nel suo caso la rivoluzione non ci sarebbe stata. Adesso lo sapeva”).
Parlando di Bela: rivoluzionaria, forza, maternità, indipendenza, concretezza, concetto di tempo: tutto il passato che diventa “ieri”.
Parlando del romanzo nella sua totalità: film (lapsus di Gianluca, a dimostrazione di quanto la narrazione scorra davanti ai nostri occhi come una pellicola), solitudine (Antonella); acqua, Durga Pujo, Diwali, andamento circolare della storia (Antonella 2); cultura, integrazione, contesto sociale, cibo, odori, Calcutta, storia, avvincente.
È stato uno degli incontri più arricchenti degli ultimi mesi; le voci dei partecipanti che qualche volta si sovrapponevano, non per mancanza di rispetto nei confronti degli altri, ma per il forte coinvolgimento nella storia e l’incapacità di mettere a freno la lingua. Più parlavamo e più ci sembrava di dover approfondire, sottolineare una sfumatura che non era stata evidenziata abbastanza, tornare su una vicenda storica, su un personaggio, sugli eventuali aspetti biografici della scrittrice inseriti nel romanzo. 
Anch’io mi sono interrogata molto sul percorso seguito dall’autrice nella costruzione della narrazione e ho cercato qualche intervista in rete. Jhumpa Lahiri racconta di essere rimasta molto impressionata da un episodio narratale durante uno dei suoi primi viaggi, da adolescente, in India. Due giovani fratelli, facenti parte di un movimento politico violento, erano stati giustiziati davanti agli occhi dei genitori, a pochi metri di distanza dalla loro abitazione di Calcutta. La storia è rimasta impressa per anni nella memoria dell’autrice, fino a trasformarla nella vicenda da cui ha inizio l’intreccio narrativo di the Lowland. Nello stesso articolo, leggo le considerazioni che la Lahiri fa in merito alla figura di Gauri:
«Volevo esplorare la reazione di una giovane donna, come Gauri, dopo aver vissuto un’esperienza così forte. Quale sarebbe potuto essere il comportamento di una ventitreenne, innamorata del marito rivoluzionario, dopo averlo visto uccidere sotto i suoi occhi? Suo marito viene ucciso e lei scopre di essere incinta. Che conseguenze avrebbe avuto sulla sua vita l’aver assistito a 23 anni alla morte dell’uomo che amava?».  
Un romanzo che ha appassionato chi si era professato poco interessato alle vicissitudini indiane, chi l’ha riletto per la seconda volta (trovandolo ancora più intenso della prima), chi non aveva mai sentito parlare dell’autrice, chi era giunto in biblioteca incuriosito dalla presenza di un gruppo di lettura e non ha potuto fare a meno di porre qualche domanda (Alla fine Bela si riappacificherà con la madre? Ma cosa sappiamo dell’autrice? E quindi come va a finire?). Quesiti a cui non si può rispondere: il gruppo non può sostituire il piacere individuale della lettura. 

Un grande incontro. 


Jhumpa Lahiri, La moglie (The Lowland), traduzione di Maria Federica Oddera, Guanda editore.

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